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Prima edizione italiana integrale
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“Il Formulario per un nuovo urbanismo viene scritto a Parigi tra l’agosto e il settembre del 1953 a firma di Gilles Ivain, pseudonimo di Ivan Chtcheglov, un diciannovenne che, folgorato dalla lettura della vita di Van Gogh suicidato dalla società raccontata da Artaud, aveva abbandonato la scuola a 16 anni. Da quel momento si era dedicato ad un nomadismo esistenziale che lo aveva portato a contatto con l’ambiente bohémien del Quartiere latino, dove alcune correnti post-surrealiste sognavano ancora di concretizzare il vecchio progetto di saldare la rivoluzione
sociale di Marx con la rivolta esistenziale di Rimbaud. Chtcheglov e il suo amico e coinquilino, Henry de Bearn, erano da poco finiti nei guai, accusati nientemeno di progettare un attentato per far saltare le Torre Eiffel, colpevole con le sue luci di non farli dormire di notte. (…)”, dalla nota introduttiva di Leonardo Lippolis.
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“In città, senza più tempio del sole, noi ci annoiamo. Tra le gambe delle passanti i dadaisti avrebbero voluto trovare una chiave a stella e i surrealisti una coppa di cristallo, tutto questo è perduto. Sappiamo leggere sui volti ogni promessa, ultimo stadio della morfologia. La poesia dei manifesti è durata vent’anni. Ci annoiamo in città, bisogna faticare molto per scoprire ancora dei misteri sui cartelli della pubblica via, ultimo stadio dell’umorismo e della poesia (…). Noi lasciamo a Le Corbusier il suo stile, così adatto a fabbriche ed ospedali, come pure alle prigioni del futuro: in fondo non costruisce già delle chiese? Non so quale risentimento abita quest’individuo – brutto di viso e ripugnante nelle sue concezioni del mondo – per voler schiacciare l’uomo sotto ignobili masse di cemento armato, questa nobile materia che dovrebbe consentire un’articolazione aerea dello spazio, superiore al gotico fiammeggiante. Il suo potere di rincretinimento è immenso. Un progetto di Le Corbusier è l’unica immagine che evoca in me l’idea di un suicidio immediato. Sparirebbe per colpa sua ciò che resta della gioia. E dell’amore – della passione – della libertà. (…) Una malattia mentale ha invaso il pianeta: la banalizzazione. Tutti sono ipnotizzati dalla produzione e dal comfort – fognature, ascensori, stanze da bagno, lavatrici. Questo stato di fatto, che ha avuto origine dalla protesta contro la miseria, supera il suo lontano fine – la liberazione dell’uomo dalle preoccupazioni materiali – per divenire nell’immediato un’immagine ossessionante. Tra l’amore e lo svuota-rifiuti automatico la gioventù di tutti i paesi ha scelto e preferisce lo svuota-rifiuti. Un totale cambiamento di rotta dello spirito diviene indispensabile, tramite la messa in evidenza dei desideri dimenticati e la creazione di desideri completamente nuovi. (…)”, GILLES IVAIN, 1953.
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“(…) la psicogeografia di Gilles Ivain coglie con straordinaria lungimiranza come lotta alla psichiatria e lotta alle istituzioni siano la medesima cosa nel quadro di un urbanesimo unitario, che ripristinando un rapporto olistico e creativo tra la soggettività e l’architettura la abolisca quale spazio strutturato da dispositivi per tradurla in luogo soggettivamente istituito, laddove la depatologizzazione di ogni modalità psichica, che sarà propria dei movimenti “antipsichiatrici”, ponga la condizione basilare per l’anarchia urbana dell’essere umano.”, dalla postfazione di Pep (Kalashnikov Collective).